Di ieri un’uscita che mi vede coinvolta! Su richiesta delle editrici, infatti, ne ho scritto la postfazione.
“Come volano le api” di Chiara Castello , Le Plurali editrice, è un romanzo distopico a forte vocazione antispecista ed ecologista.
Racconta la storia di Carla, infermiera che trova lavoro nella misteriosa Riserva.
Lì, esseri denominati “subumani” sono allevati e sfruttati come prede, in cacce selvagge tra i boschi, per il divertimento di ricchi e di chiunque possa pagarselo.
Nella mia postfazione ho individuato possibili filoni concettuali e titoli di grandi autrici di oggi e di ieri, che parlano di cose simili, o in modo simile. Discorsi con un fil rouge alla base, che include Chiara Castello in un discorso più ampio, in una ideale comunità di voci.
Ringrazio Le plurali editrice per la fiducia e la considerazione che hanno avuto nei miei confronti, nel chiedermi un intervento a corredo del testo.
L’idea iniziale era quella di scrivere una prefazione, ma dopo la lettura ho capito che per parlare di aspetti che considero importanti sarebbe stato meglio posporre il mio intervento alla fine.
Questo per poter lasciare a chi legge il gusto della scoperta, della sorpresa, della ricerca personale, e solo dopo suggerire linee e idee a mia volta, senza rischiare di sovrappormi alle voci della storia.
Per la stessa ragione, non mi pare giusto nei confronti dell’autrice e della storia stessa il pubblicare integralmente qui la mia postfazione, cosa che faccio di solito per i miei scritti e che avevo già concordato con le editrici.
Ne riporto solo i passaggi senza riferimenti diretti al romanzo, per dare un’idea dei temi e delle suggestioni e per metterti a parte di un percorso concettuale che mi piacerebbe riprendere in modo più approfondito.
Altra cosa: al momento Le Plurali editrice non include la grafia della schwa, la famosa/famigerata ə, nelle sue norme redazionali. Ho lavorato sul linguaggio per renderlo comunque inclusivo, il maschile non è mai sovraesteso o generico, il femminile non è mai messo a caso.
Voci dagli alveari
di Giulia Abbate
Postfazione a “Come volano le api” di Chiara Castello
“Come volano le api” di Chiara Castello è una storia dura, che non esita a colpire e che allo stesso tempo contiene un nucleo di profonda pietas. Un romanzo condotto con un lavoro stilistico complesso per una prima opera, messo al servizio di messaggi chiari e coraggiosi.
Dipinge un futuro in cui a elementi a noi familiari si sovrappongono realtà inaudite, ma socialmente accettate. Questo gioco tra familiarità e straniamento è una caratteristica precipua della distopia, che porta alla superficie una domanda inquietante: sicure, sicuri che la realtà rappresentata sia così inaudita, “mai udita”, così inverosimile o inesistente?
Con questa storia stratificata, Chiara Castello si riconnette a un chiaro filone concettuale, quello della distopia femminista antispecista, e richiama una ricca pluralità di intrecci, di letture, di voci.
Voci di donne, e non è affatto un caso, che, contrappuntandosi e sovrapponendosi, creano un luogo immateriale e sicuro dove avere cura di ferite, problemi, questioni, riflessioni: un alveare, magari, costruito proprio dalle connessioni di messaggi oltre i vincoli dello spazio e del tempo.
(…)
C’è la voce delle “Sirene” (2007) di Laura Pugno: in un mondo devastato da un’epidemia, feroci regni criminali sfruttano le creature femminili sirenidi, più radicalmente altre delle “subumane” di Castello, ma ugualmente sopraffatte, mercificate, abusate, ugualmente richiamanti nelle loro ferite il volto peggiore dell’umano.
Il messaggio antispecista di “Sirene” risuona nella domanda di Carla, al ricordo del padre cacciatore: è poi tanto diverso cacciare animali, “subumani”, umani, chiunque? Che differenza c’è, se non nel tipo di vittima, in un abuso della medesima qualità?
E guarda caso, i gangster-yakuza di Laura Pugno maneggiano benissimo la mentalità del capitalismo e della predazione, la stessa impiegata nella Riserva dove Carla presta il suo servizio di infermiera, pervertendo il giuramento che ha fatto – un’altra voce, quella della sua promessa, risuona tra i corridoi interrati e resta viva nel silenzio.
C’è poi la voce di Ursula K. Le Guin, maestra di “fantastico speculativo”: Le Guin usa gli strumenti del fantastico per parlare del nostro mondo e, in una celebre allegoria, afferma che la storia fantastica è come uno specchio ai margini della strada, che ci rimanda un’immagine dell’ambiente bizzarra, distorta, pazzesca, eppure rivelatrice di altri possibili punti di vista.
Il fantastico, ci ricorda Le Guin in un articolo contenuto ne “Il linguaggio della notte” (1979), non è reale, ma è certamente vero: questa lezione mi pare ben compresa da Castello, nelle cui righe risuona un altro tema spesso affrontato da Le Guin, tema che trovo molto importante sottolineare, perché ancora – ahimé – minoritario nella fiction, non meno che nella lettura della realtà.
Si tratta della relazione tra vittime e carnefici, e di come intendere questi due ruoli, tanto in modo letterario quanto esistenziale.
In “Come volano le api” la differenza è netta, non ci si può sbagliare.
I (cosiddetti) “subumani” sono cacciati e sfruttati: sono le vittime per antonomasia.
Gli (autonominatisi) “umani” sono i boia: padroni degli allevamenti e signori di una Caccia Selvaggia rovesciata, dove i predatori demoniaci hanno status di cittadini perbene, e le anime esposte allo sbranamento non sono dannate, ma le uniche davvero salve.Salve, sì, salve!
(…)
Torniamo a Ursula K. Le Guin: al termine del suo romanzo “Il mondo della foresta” (1976) – romanzo di boia e vittime, di colonizzatori capitalisti e colonizzati animisti, romanzo di linguaggio fatto messaggio e di voci che si contrappuntano – la scrittrice inserisce una brevissima postfazione, nella quale afferma senza mezzi termini che tra i due personaggi contrapposti, da lei creati, tra l’abusatore crudele che trionfa e l’essere sensibile che soccombe, lei come persona trova augurabile essere nei panni del secondo.
Principio morale? Aderenza etica? Anche, ma non solo: c’è qui una questione più profonda che anche Toni Morrison ha affrontato a più riprese, ad esempio in “L’origine degli altri” (2017).In questa breve raccolta di interventi critici, la scrittrice conduce un’indagine sulla sopraffazione e sulla sua rappresentazione. Non si accontenta però di dare voce a una sola parte in causa, la parte a cui è abituale pensare, quella delle vittime. No, in un rapporto di violenza le parti sono due e agisce una sola, quella di chi fa la violenza: così, Morrison legge e analizza i diari di uno schiavista bianco, proprietario di piantagione nel Sud degli Stati Uniti del XIX Secolo.
Sono pagine laconiche: considerazioni sul tempo, conti sulle derrate alimentari, annotazioni sugli stupri di schiave aggredite a tradimento nei campi. Sono pagine in cui la ragione si fa serva di un abominio e l’umano pare trasfigurarsi in qualcos’altro, in quel demoniaco che mentre batte la foresta – sia di una Riserva o di una piantagione – trasforma se stesso in preda della propria nuda fame di macello.
È umano, questo? Certo che sì, se prendiamo a orientamento la massima latina espressa da Publio Terenzio Afro nel “Heautontimorùmenos” (ovvero… “Punitore di se stesso”): “Homo sum, humani nihil a me alienum puto” ovvero “Sono un essere umano, niente di ciò che è umano lo ritengo a me estraneo”.
Ma se badiamo al senso più alto della parola “umano”, quel senso che ci piace accostare automaticamente alla nostra specie – nobile, solidale, capace di rispetto, dolcezza, trascendenza… se badiamo a questo senso, è “umano” chi abusa? O non si fa piuttosto “disumano” egli stesso?
La risposta può darcela un’altra voce, se la stiamo a sentire: quella voce silenziosa di verità, quella voce irriducibile e spontanea, fisiologica e salutare, che tutte e tutti abbiamo dentro e che porta senso senza alzare parole udibili.
Non ci dice forse qualcosa… non ci dice che a chi è capace di soffrire non va inflitta sofferenza, anzi, che è doveroso tentare di curare e alleviare il suo dolore?
Quanto ci costa far tacere questa voce spontanea e fisiologica?
Zittire il suo messaggio, sommergerla di bugie e di ragionevolezza contingente?
Cosa diventiamo, come plasmiamo i nostri spiriti quando pensiamo di poter negare la verità della creatura di fronte a noi?
In che demonio travisiamo la nostra umanità e la nostra “umanità”?
La riflessione di Toni Morrison ci mette di fronte al travisamento che il carnefice compie non dell’umanità altrui, ma della propria, trasformando se stesso in un abominio nel momento in cui tenta di oggettificare la vittima prescelta.
(…)
È questo l’elemento che più mi ha colpita di “Come volano le api”.
Domina oggi un contesto editoriale e culturale mainstream in cui le storie di violenza estrema abbondano, ma spesso sono contraddistinte da superficialità pietistica, oppure da estetizzazione cinica.
Soprattutto, regna nella rappresentazione della violenza un nichilismo del tutto ancillare al sistema tardocapitalistico (o capitalocenico, magari) che ci sbranerebbe tutte e tutti, con gusto, un pezzo alla volta. E che dipinge le vittime ancora più brutte e cattive dei carnefici, per far passare un messaggio chiaro e ripetuto: “Se solo comandassero loro, sarebbe anche peggio, quindi tanto vale restare così come siamo…”.
Così, la distopia si trasforma da critica sociale in conservazione, la paura del male in codardia. E anche la fantascienza, che potrebbe e dovrebbe essere controcultura per definizione, si presta a servire i padroni correnti e il loro status quo.
In questo romanzo non è così.
(…)A lettura terminata, va detto, emerge anche altro: il romanzo si misura frontalmente con la questione ecologica, con echi rielaborati della pandemia, con le relazioni femminili e con una alterità maschile utopica.
La forza con cui si affrontano questi temi in una scrittura esordie nte è un elemento positivo, che denota sincerità, ardimento, disponibilità al confronto. E fa ben sperare per il prosieguo del percorso autoriale.Pensando a questo percorso, ecco che emergono altre voci ancora, che stanno intorno, fuori, accanto alle righe. Sono le voci de Le Plurali: Beatrice Gnassi, Clara Stella, Hanna Suni e Valentina Torrini hanno scelto, accolto, pubblicato la storia che hai letto.
(Puoi leggere la postfazione in versione integrale nel volume “Come volano le api” di Chiara Castello, Le Plurali editrice)
Ora sta a te completare la costruzione di questo alveare con la tua voce silenziosa: quella che dà vera vita a uno scritto, quella che risuona nella testa quando leggiamo, quella che aggiunge la propria interpretazione personale.
Falla parlare. E ascoltala.
È per dirti soprattutto questo, in fondo, che oso aggiungere la mia voce, umilmente in coda alle altre più illustri: ascolta le voci in questa storia, e chiudila solo quando vi avrai aggiunto la tua.
Così, nel risuonare di voci silenziose e capaci di verità, ci ritroveremo forse insieme, in un qualche giardino oltre il giusto e lo sbagliato, più capaci di amare e di chiederci perché.
Grazie.
Ti invito a non perdere “Come volano le api”. Sfruttamento, paura, crudeltà, follia, ma anche riscatto, libertà, amore, sorellanza, preghiera… in poche pagine e tante voci questo romanzo ti appassionerà, ti commuoverà e ti farà pensare.
Qui il link al sito della casa editrice Le Plurali: “Come volano le api” di Chiara Castello
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