Su Solarpunk Italia parliamo di storie per un futuro migliore, di libri, di scrittura, e anche di molto altro. La rubrica SEMI, ad esempio, pubblica brevi ricerche, prototipi, idee, che possano ispirare chi scrive. Ma che sono bellissime da leggere anche di per sé!
Alcune, a dire il vero, le presentiamo in maniera critica, nel senso che di fronte a tante innovazioni super high-tech la domanda che sorge è: ne abbiamo davvero bisogno?
Fortunatamente, non c’è solo lo high-tech, esiste anche qualcosa di diverso, il low-tech: ovvero soluzioni e invenzioni che prevedono un uso bassissimo della tecnologia, e si basano piuttosto su ciò che già esiste, con evidente risparmio di produzioni, materiale, meno problemi di manutenzione, smaltimento…
Low-tech è per definizione il sapere nativo e indigeno.
Il SEME proposto da Silvia Treves, Foreste sacre contro il cambiamento climatico, ne è un esempio, ma sono certa che anche in Italia esista una cultura low-tech da riscoprire, non solo per fare cose in modo più efficiente, ma soprattutto per stare meglio e vivere in modo più attivo e felice, con meno aggeggini e più contezza degli strumenti che usiamo, e più gioia nel saperli usare.
Ecco qualche parola in più, dalla mia INTRO al post da me tradotto “Bassa tecnologia”: perché la sostenibilità non deve dipendere da soluzioni ultratecnologiche:
Pochi dispositivi, semplificazione, riuso, ricerca di soluzioni che riducano e non aumentino la quantità di oggetti, acquisti, manutenzione, “confort” e così via.
Metto “confort” tra virgolette: perché è certamente confortevole beneficiare di tecnologie che riducono la quantità di operazioni o sforzo necessario per fare qualcosa… ma ne abbiamo davvero bisogno?
Il filosofo greco Epicuro affermava: ricco non è chi ha molti beni, ma chi ha poche necessità.
Portremmo dire lo stesso della tecnologia. Pur senza demonizzarla (è indubbio che applicazioni che a noi paiono assolutamente inutili, come, che so, alzare una tapparella con un battito di ciglia, ci sarebbero invece preziose se avessimo una disabilità), a me viene da pensare che con più tecnologia siamo addirittura più pover* . Questo perché nel nostro sistema attuale lo high-tech è il prodotto di un sistema capitalistico altamente centralizzato e piuttosto selvaggio, che rapina materie prime servendosi di guerre e schiavitù, le lavora in fabbriche deregolamentate e poste strategicamente sulle proprie “frontiere”, e lega la loro durata a una dipendenza dalla casa madre, o peggio, ne programma l’obsolescenza.
Meglio sarebbe liberarci dalla convinzione che lo high-tech sia intrinsecamente positivo e naturalmente simbolo di progresso. Meglio sarebbe superare il concetto di “indipendenza” promesso illusoriamente dalle macchine, e la realtà della dipendenza che esse creano nei confronti del sistema che le produce, per recuperare piuttosto il concetto di “interdipendenza”: quello che non costa a noi, lo paga qualcun* o qualcos’altro. Quello che non facciamo noi, viene comunque fatto in qualche modo che noi deroghiamo o ignoriamo.
Le culture native questo lo sanno: la loro relazione organica con il mondo permette una visione più chiara delle relazioni in gioco.
Lo abbiamo visto raccontando del saggio LoTek di Julia Watson sulle architetture indigene come strumento di resilienza climatica.
E anche il “Seme” dedicato alla biodiversità presente nelle foreste sacre ci aiuta a ragionarci.
Il nostro percorso sugli aspetti solarpunk delle culture native include anche una rosa di consigli di lettura sullo sciamanesimo a cura della scrittrice Elena Di Fazio.
Se volete leggere qualcosa di tutto questo in un racconto solarpunk, il titolo giusto è “Oasi” di Marco Melis. Mentre un romanzo di fantascienza più classico, che immagina una nuova e grande cultura di stampo nativista, è “Sempre la valle” di Ursula K. Le Guin. recensito per il blog da Franco Ricciardiello.
Buone letture!
Bisognerebbe approfondire il concetto di sapere nativo locale, ovvero italiano… lo sto già facendo, ovviamente Magari un giorno potrò parlarne un po’ di più!
Per ora continuo a studiare.
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