In giro per le reti e bolle varie nelle quali passo da pellegrina curiosa, mi pare di captare un interesse, nato da poco o nascituro, verso il “Genji Monogatari”, un classico della letteratura giapponese.
Si tratta di un romanzo del XI secolo (sì, romanzo, tra i primi o forse il primo della storia) scritto da Murasaki Sikibu, poetessa e scrittrice che lo compose per il gusto sofisticato e sottile delle dame di corte Heian.
E già questi sono motivi di interesse.
Quello che posso aggiungere a beneficio di chi mai si interesserà di nuovo al “Genji Monogatari” – magari diventerà un trend, a volte mi capita di beccarli in nuce – è la sua vicenda italiana, molto poco conosciuta.
(E parte ora il mio momento di storia dell’editoria, sembrerà strano a chi mi segue per la fantascienza, ma il mio campo di nascita è quello e non ho mai smesso di sguazzarci. Vado!)
Il “Genji Monogatari” fu pubblicato in Italia dalla Corbaccio del giovane Enrico Dall’Oglio, che la aprì nel 1923 a 23 anni e che portò nel nostro paese tantissime firme e correnti importanti, appoggiandosi anche all’estroso critico Gian Dàuli, oggi inspiegabilmente dimenticato.
Dall’Oglio, milanese autodidatta che si comprò la casa editrice dove era stato preso inizialmente come garzone, fece tradurre e pubblicò autori e autrici internazionali da ogni parte del mondo, e anticipò di diversi anni le correnti “americane” degli Anni Trenta.
Scelse titoli controcorrente, quasi eversivi, che parlavano di diserzione, lesbismo, esoterismo, radicalismo: Schnitzler, Radclyffe Hall, Dos Passos, Bernanos, Zweig, D.H. Lawrence, Katherine Mansfield, una prima traduzione italiana di Céline accanto ad autori hatiani, di Harlem, ebraici, e accanto alla dama giapponese Murasaki Sikibu.
Nel 1935 esce quindi “Il principe Ghengi”, con traduzione di Arturo Waley e prefazione di Gian Dàuli, prefazione che anche Dall’Oglio ripercorre e rielabora nei suoi appunti privati (che ho avuto il privilegio di leggere grazie alla disponibilità di suo figlio Andrea che mi aprì il suo archivio per la mia tesi di laurea), definendo lo stile raffinato di Murasaki Sikibu ancora leggibile e affine alla “nostra” sensibilità.
“Il principe Ghengi” doveva essere il primo di sei volumi che avrebbero composto l’opera integrale, ma Dall’Oglio dovette presto mollare tutto per scappare.
Già, non ve l’ho detto? Siamo alla fine degli Anni Trenta, c’è il fascismo e Dall’Oglio è nel mirino del regime: mentre quel volpone di Arnoldo Mondadori pubblica la biografia celebrativa del Duce e si garantisce commesse e privilegi, il giovane Dall’Oglio ignora gli ammonimenti, scansa i sequestri e continua a pubblicare chi dice lui, con la collana “Scrittori di tutto il mondo”.
A un certo punto il pericolo è troppo, e precedendo la famiglia (anche questo mi ha raccontato Andrea, ancora commosso dopo tanti anni) fugge in Svizzera.
Dopo la guerra, Milano è devastata e gli stabilimenti tipografici rasi al suolo, ma Dall’Oglio si rimbocca le maniche e riporta la Corbaccio in auge, lasciandola poi ad Andrea che l’ha venduta negli Anni Novanta (c’è stato un momento, simboleggiato dal crack Einaudi, di profonda ristrutturazione “bancario-societaria” del mercato editoriale italiano, che è radice dei nostri mali di oggi, ma questa è un’altra storia).
Dopo gli Anni Trenta, però, “Il principe Ghengi” è dimenticato, e un po’ anche Enrico Dall’Oglio. La sua energia, il suo eclettismo, il suo amore per la cultura spericolato come può esserlo solo quello di un autodidatta, il suo coraggio di editore antifascista, i suoi enormi meriti culturali non sono celebrati come dovrebbero.
(Io ho pure scritto alla Corbaccio, un paio di volte, proponendo una monografia dedicata al loro fondatore, in vista dei cento anni del marchio, ma non ho avuto risposta. Caso mai leggeste: sono sempre qui, vogliamo parlarne?)
Quindi, ecco, tutto questo per dirvi: se doveste vedere in giro un ritorno del “Genji Monogatari”, pensate anche un po’ a Enrico Dall’Oglio.
Pensate a questo editore ventenne milanese antifascista, determinato come un treno, che è stato uno dei primi a portare in Italia le voci del mondo, di tutto il mondo, di uomini e donne che ancora continuiamo a leggere.
(E se vedeste un libro come quello della foto su qualche bancarella dell’usato, prendetelo! È uno “Scrittori di tutto il mondo”, è la storia della nostra cultura!)

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