(Sto lavorando a una nuova storia. Si tratta di qualcosa di molto complesso, e fin qui niente di nuovo. Ma è anche profondamente radicato nel momento attuale, e questo rende il complesso anche complicato, almeno per me. Tant’è. Spero di portarlo a termine, più che altro perché è un racconto utopico. Eccone un passaggio.)
Ricordavo di avere una dignità, ma non andavo oltre: mi pareva sommersa e ansimante. Non tanto in me, dove gridava furiosa, ma nell’orizzonte degli eventi, in quel mondo assurdo che fino a tre anni prima – o quattro? O erano cinque? – non avrei mai immaginato di dover vedere.
Persino sulla pira del rogo, persino prima di consegnare l’eretico al boia, il più fanatico inquisitore si fermava e c’era sempre un momento prima dell’irreparabile, in cui interloquiva: «Ti penti? Non vuoi salvarti l’anima?»
Ma qui e ora l’anima non esisteva più. C’era solo la furiosa sopravvivenza di corpi fatti a polpette dalla paura di vivere. Era una caduta a precipizio, questa, che vedevo come inscritta nell’edificio della modernità: non un plot twist, ma lo svolgimento banale di fondamenta ben piantate alla luce del sole.
Quel regno apocalittico che volenterosamente continuavamo a erigere, quella rivelazione strombazzata dai sacri virologi biancovestiti era consequenziale, ovvia, inevitabile. Ma aveva comunque un’apparenza scabrosa, oscena, brutale, feroce oltre il sostenibile.
«Il Generale Primario assicura che ogni sacca di resistenza sarà trattata senza guanti di gomma» proseguiva il notiziario. «Le sette No-Life rifiutano la vita sociale, insistono con argomenti noscienza e sono un pericolo per la salute pubblica equiparabile al terrorismo di matrice islamica. Il Ministero dell’Interno annuncia una stretta sui lasciapassare, seguendo il principio della velocità nel prenotarsi alla somministrazione, anche per la tredicesima dose in arrivo dal prossimo mese.»
Io ero rimasta alla settima. Non appena mi ero accorta di essermi comunque ammalata, avevo avuto la stupidità di avvisare il Presidio Sanitario di Zona. Uno stolido sottufficiale mi aveva informata di aver inserito il mio nome nel registro della massima sorveglianza: se mi avessero beccata fuori casa mi avrebbero arrestata e confinata in un Hotel Quarantena fino alla negatività, e allo stato attuale dell’arte la negatività non era garantita in tempi brevi (per non parlare delle voci raccapriccianti che giravano sugli Hotel Quarantena).
Erano passati dieci mesi, da allora. Ero riuscita a comprare un tampone online due mesi prima, ma era risultato ancora positivo. Nel frattempo, i droni di sorveglianza sanitaria avevano segnalato al Presidio che mi ero affacciata alla finestra: ne avevo ricavato una multa, il blocco del diritto di voto alle amministrative e la revoca del paracetamolo settimanale – non che prima lo avessi mai preso, ormai sapevamo tutti che era una “cura” che poteva ammazzarti, ma lo usavo come merce di scambio con un paio di rider, in cambio di avanzi di sushi e pezzi di pizza che per un certo periodo mi avevano praticamente mantenuta in vita.
(Continua. Spero!)
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