Gli ultimi stormi di uccelli migratori passano sopra di noi. Mi fermo per strada e li osservo a testa in su, senza imbarazzo, qualcuno mi imita.
Quei voli vorticosi e ordinati ci riportano a unità continue di spazio e di tempo.
Di spazio: i corridoi dell’aria, il piano appena superiore alla linea dei nostri occhi, il tetto dell’atmosfera, la volta del pianeta. Da qualche parte, a qualche giorno di volo, c’è sempre un posto caldo.
Di tempo: le stagioni che in città sono senza profumo, i giorni cangianti, i ricorsi.
Riabbasso gli occhi, li immergo nelle cronache medievali, da questa stagione alla stessa di settecentocinquant’anni fa, ascolto fra Salimbene:
«Ed innumerevoli stormi di quegli uccelli, che nelle vigne devastano le uve, e che dal volgo si chiamamo tordi, passarono nell’autunno di quell’anno, sicché ogni sera dopo cena sino al crepuscolo della notte, e per molti giorni, appena si poteva liberamente vedere il cielo. (…) Ed io con altri frati ogni sera usciva a vedere, a osservare, a empirmi di meraviglia, e volendo stare all’aperto, all’aperto non si era, perché quegli uccelli velavano tutto il cielo. E dico cosa vera, da me veduta.»
Dalle Cronache di Fra Salimbene da Parma
27 novembre 2018

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