Pubblico oggi il mio articolo finalista al Premio Italia 2022, nella categoria Articolo su pubblicazione professionale. il pezzo è uscito per il primo numero di Fantasy Voice, dedicato ai 700 anni dalla nascita di Dante Alighieri. Su richiesta del direttore Simone Bonaccorso, ho preso in esame l’immaginario dell’apocalissi climatica in relazione agli scenari danteschi, che a mio avviso l’hanno molto influenzata (come del resto hanno influenzato l’intero immaginario artistico europeo).
Buona lettura!
(E se puoi farlo, vota il mio articolo nella seconda fase del Premio Italia, grazie!
Inoltre: sono finalista in altre categorie, puoi trovarle nell’articolo di oggi di Studio83)
L’Inferno in terra: la distopia climatica / per Fantasy Voice #1
L’umanità ha sempre ragionato sulla fine dei tempi, della storia, del mondo. Dalla Commedia di Dante in poi, questo immaginario si è arricchito di suggestioni e visioni inedite, che colpirono i contemporanei e che non hanno mai più smesso di agire nella fantasia europea, influenzando gli scenari artistici in tema.
Nell’ultimo secolo, il panorama catastrofico si è inoltre arricchito di nuovi tòpoi, di nuovi elementi iconici: e la letteratura in particolare si confronta in modo sempre più urgente con il tema del disastro climatico provocato dall’attività umana.
Lo stato dell’arte, a oggi, può essere letto attraverso l’unione di questi due elementi: l’inferno in terra, il pianeta di fronte alla fine. La degradazione ecologica alla quale abbiamo sottoposto l’ecosistema terrestre si unisce al tema della fine, un tema che si presenta ciclicamente nell’arte e nella letteratura, nei momenti nei quali si avverte con paura un cambiamento epocale di valori e di società.
L’ultima chiara emersione dell’apocalissi nella letteratura si è avuta nei difficili Anni Settanta, gli anni delle crisi energetiche, delle contestazioni sfociate in contrasti sempre più violenti, del Vietnam, del terrorismo, dei golpe: allora, la letteratura tutta mutuava dalla fantascienza le visioni dell’incubo nucleare, e metteva in opere di generi diversi il sentimento della dissoluzione, dello sterminio, della distruzione totale. (Da “L’ultima spiaggia” di Nevil Shute del 1962, con l’attesa dell’inevitabile nube nucleare e dello sterminio finale, arriviamo nel 1977 a “Dissipatio HG” di Guido Morselli, nel quale l’umanità sparisce senza un perché e il protagonista si trova solo, nelle cose vuote del mondo, e vaga…)
Oggi siamo pure in un momento di profonda crisi: contrapposizioni sociali, guerre percepite come infinite, migrazioni di una portata mai vista prima; in più, l’aggressione che negli ultimi decenni abbiamo intrapreso contro l’ecosistema ci presenta ora il conto, sotto forma di un pianeta inquinato, riscaldato, desertificato, nel quale la vita della nostra stessa specie, oltre a quelle che abbiamo cancellato noi, inizia a essere in discussione.
Inferno in terra: è il panorama sul quale molta parte della letteratura si concentra ora, e lo fa ispirandosi al genere che più degli altri e prima degli altri ha lavorato su questo scenario. Parlo naturamente della distopia climatica.
La distopia climatica, oggi chiamata popolarmente climate fiction o cli-fi, è quel tipo di fantascienza che immagina un futuro peggiore rispetto al nostro presente, un “futuro andato male”, e che si concentra sulla degradazione del clima per costruire le sue storie. Nessun genere narrativo più di questo è capace di costruire inferni in terra, e se la letteratura tutta ha un debito chiaro (spesso non riconosciuto) con la distopia climatica, quest’ultima ha un debito altrettanto grande con l’immaginario dantesco.
Laghi sobbollenti, folle piangenti senza scampo, fiere che dilaniano anime, piante sanguinanti, fiumi di lava: visioni penetrate nell’immaginario europeo, che anche oggi sono presenti nel modo in cui rappresentiamo la catastrofe.
Penso a un romanzo come “Il libro di Joan” (2019) di Lidia Yuknavich: una storia potente, fatta di esplosioni planetarie, stermini di massa, innocenti seppelliti, e di una umanità superstite e pervertita che si è rintanata su una stazione spaziale di nome CIEL – il resto, ovvero il pianeta Terra, è Inferno. Il romanzo contiene tra l’altro molti riferimenti medievali, il legame con la Commedia è esplicito.
Anche la produzione cinematografica si impegna, nonostante sia difficile eguagliare le scenografie dei blockbuster che a ridosso del fatidico 2012 avevano riempito le sale: allora, il senso della fine trovò la ricorrenza maya per travestirsi da moda, ma non è stato affatto passeggero. Il calendario è andato avanti, l’armageddon è rimasto: del 2021 è The Midnight Sky, il discusso film Netflix di e con George Clooney, ma già l’epopea di Interstellar (2019) di Christopher Nolan partiva da un pianeta Terra ormai agli ultimi giorni prima del definitivo collasso ecosistemico.
Da qui, possiamo intravedere una differenza sostanziale tra due tipi di distopie climatiche, che ci porta a sottogeneri (o sotto-sottogeneri, come preferite!) un po’ diversi.
A volte, la distopia prende le mosse dalla catastrofe, per poi andare a raccontare una storia da essa influenzata: siamo prevalentemente nel postapocalittico. Altre volte, il fulcro della distopia è la catastrofe stessa, ed eccoci nell’apocalittico tout court.
Di questo secondo tipo è il romanzo “Qualcosa, là fuori” di Bruno Arpaia (2016), che è un viaggio di migranti climatici in un’Europa devastata dal riscaldamento. Del primo tipo è il nerissimo “La strada” di Cormack McCarthy, un peregrinare negli USA più cattivi di sempre di un padre con suo figlio.
Entrambi possono essere messi a confronto con un epigono assoluto, “La parabola del seminatore” (1993) di Octavia E. Butler. Anche qui, come del resto nella Commedia dantesca, il viaggio è un elemento chiave: una donna si muove negli USA sconvolti, per fondare una nuova comunità sicura, prendendosi cura di chi incontra per la strada, e recuperando la dimensione di una fortissima spiritualità. In Butler, il disastro climatico è l’innesco per la catastrofe sociale, un classico della distopia tout court, ed è lasciato sullo sfondo, a beneficio di una storia di ostinata resistenza, lotta e rinascita. (Stesso procedimento del film/serie “Snowpiercer”: il treno come ultimo baluardo in una glaciazione totale è una situazione base dalla quale parte una ampia, potente allegoria).
Rinascita è una parola chiave, nel lungo percorso della rappresentazione della fine. Nel Medioevo, l’apocalisse del Libro di Giovanni era pensata, attesa e intesa nel senso di rivelazione: non fine, ma palingenesi, nuovo inizio nella vera vita del divino. Oggi, la catastrofe si sovrappone all’estinzione, a volte temuta, altre volte chiamata in causa in modo superficiale, quasi per il solo gusto della parola. In generale, però, dall’Inferno della Commedia abbiamo perso la dimensione trascendente. La distopia mantiene almeno una sfera morale, nel senso medievale di ammonitore: leggendo cli-fi dovremmo essere ispirati a cambiare comportamenti, ad agire per evitare quei disastri, a vedere il mondo in modo diverso.
Questo sembra essere il sostrato di molte narrazioni degli ultimi anni: la quadrilogia climatica di Maja Lunde si apre con “La storia delle api” (2017), proprio mentre si dibatte sul pericolo della loro scomparsa. La raccolta “La natura dell’acqua” (2016) di Nina Munteanu si chiude con un saggio più incisivo dei racconti, l’autrice è limnologa e si rivolge direttamente a chi legge, per spiegare la situazione idrica del pianeta (situazione che dà il via a diverse guerre dell’acqua narrative, come in “The water knife”, 2015, di Paolo Bacigalupi).
Ci troviamo ora in un altro momento di passaggio: accanto alla distopia torna a porsi l’utopia, e un’utopia fortemente ecologica, nella forma del solarpunk che immagina modi sostenibili per arrivare a futuri migliori. La domanda è: ce la faremo? Alla forte spinta ideale di romanzi come “The ministry for the future” (2021) di Kim Stanley Robinson fanno da contraltare opere malinconiche come “IO” (2019), film di Jonathan Helpert, dove una Terra ormai abbandonata perché contaminata ci dona inquadrature ampie e silenziose: un Inferno ormai vuoto, dunque quieto, e dannatamente bello. Questo mi porta a concludere che, nei nostri scenari della fine, dobbiamo recuperare da Dante anche il concetto del contrappasso: smettiamola subito di costruirci la nostra futura pena. La palingenesi avverrà lo stesso, ma se non ci fermiamo ora il nuovo mondo farà a meno di noi.