“Nei giorni seguenti altre dinamiche si riformeranno, e dovremo tornare di nuovo a lavorare, in modo manifesto e sottile, sulla coesione, sulla fiducia. Ma la sensazione è che qualcosa, per un momento, si sia sciolto.”
Un consiglio di lettura: “La scuola fatta in casa. Un’esperienza di educazione collettiva” a cura di Giulio Milani e Soledad Nicolazzi, Transeuropa edizioni.
Un consiglio che propongo in risposta a un video che in questi giorni è applaudito da molte e molti. Un video in cui una comica dileggia la scuola parentale e l’home schooling, inanellando una serie di sciocchezze che dimostrano chiaramente come non ne sa assolutamente nulla.
In modo cinico e feroce (“che malattia hanno queste persone problematiche che lo fanno?”, “vogliono sostituire i maestri che hanno studiato, ma col gin tonic in mano”, e simili, senza farci mancare l’annuncio pubblicitario nel mezzo del video) la comica si limita a usare luoghi comuni e stereotipi in merito, per strappare la risata più facile e più confortante: quella verso chi viene implicitamente ritenuto inferiore a noi.
Bè, direi che possiamo essere meglio di così. Direi che se vogliamo levarci dalla faccia il ghigno del prepotente, abbiamo tanti possibili percorsi da fare e da scoprire.
Preciso che a mio parere la scuola pubblica di massa è stata una conquista dell’umanità. E quindi finito, abbiamo fatto jackpot e abbiamo la scuola migliore possibile?
Assolutamente no. Sia parlando di principi generali (esiste tutto un mondo di pedagogie alternative, aspetto i prossimi video della comica, in merito, per non capirne nulla anche di quelli) sia parlando di contingenza storica: la scuola pubblica qui e ora è un posto faticosissimo che, anche se spesso popolato da insegnanti che sono dei veri e propri fari, è un meccanismo livellante ed elefantiaco che può spezzarci.
(Cara comica, fossero i bagni senza porte il problema principale. Che poi, anche fosse: provaci tu a stare otto ore senza andare in bagno, lo hai mai dovuto fare?)
In questo libro, “La scuola fatta in casa”, leggiamo le esperienze di genitori, insegnanti e ragazzi e ragazze, sull’esperienza di scuola in casa, tra dubbi e voglia di fare, tra laboratori e gite insieme, nella lenta e complessa costruzione di nuovi spazi di crescita e apprendimento.
Il tutto in una situazione di emergenza. E non parlo del covid, ma del Covidistan: nello specifico, della della follia carceraria che per tre anni abbiamo permesso che le giovani generazioni subissero, tra mascherine inutili, fobia del contatto, costante colpevolizzazione e relazioni ansiogene con insegnanti altrettanto vessati, e incapaci non dico di ribellarsi, ma anche solo di questionare quanto imposto.
Se educazione significa qualcosa in più di trasmissione di nozioni, mi chiedo come mi possa educare una persona che accetta senza battere ciglio che dei dodicenni non possano salire su un autobus, o entrare in una biblioteca.
O forse possiamo ripensare anche a questo: al concetto di “educazione”? Forse una figura educante non è quella che dia l’esempio perfetto e che debba formare giovani pezzi di pongo, ma una presenza che metta ogni persona in grado di formare sé stessa, senza stampi o manipolazioni?
Alla luce anche di questo, e non solo di questo… perché non costruire scuole diverse? Perché non ricercare, inventare o portare avanti strade altrettanto valide di crescita e istruzione? Non per imporre necessariamente una sostituzione totale della scuola pubblica, ma per dare una scelta possibile a chi la voglia provare, e una interlocuzione viva e valida al sistema corrente, che lo spinga a interrogarsi, a migliorare attraverso il confronto.
E torniamo ai principi generali, che ho prima nominato: nel suo essere grande conquista, non mi si dica che la scuola pubblica di massa come la conosciamo è l’unico modo possibile, o il migliore del mondo. Basta dotarsi di una prospettiva storica per dimostrare come il modo in cui sono educate le giovani generazioni è lo specchio della società che lo esprime, con le sue virtù ma anche i suoi condizionamenti fatti di gerarchie, di rapporti di potere, di iniquità.
E se rovesciassimo i termini? Se costruissimo una scuola diversa, potremmo prefigurare una diversa società futura?
O forse è meglio farci una risata. Una bella risata che sfotta cinicamente chi è diverso da noi, senza nemmeno prenderci il disturbo di conoscerlo. Ahahahahah LOL! (E intanto la scuola pubblica, di cui molti commentatori della comica appaiono impavidi difensori, viene smontata un pezzo dopo l’altro.) Meglio schernire chi non si rassegna allo status quo e, magari sbagliando, ma con coraggio e responsabilità, mette la propria esistenza su una strada diversa. Meglio ghignare, meglio non pensarci. Meglio dimenticare che c’è davvero poco da ridere.