Dopo la mia esperienza al Festival del Romance Italiano e dopo aver scritto io stessa un libro romance, ho iniziato a interessarmi anche a questo genere e ai tanti spunti e discussioni che riguardano la scrittura delle donne. Un tema che studio da tempo nella fantascienza, e che nel caso del romance è secondo me imprescindibile.
In questi ultimi anni, le questioni femministe sono tornate importanti e si prendono il giusto spazio, aiutate dall’ondata del #metoo, anche in riviste e contenitori generalisti, e in serie TV molto curate e attente a non cadere in vecchi stereotipi.
Una di queste, che sta facendo parlare di temi molto importanti, è Fleabag.
“Fleabag” racconta di una giovane donna londinese e della sua vita problematica, dovuta a una famiglia disfunzionale, alle difficoltà economiche legate alla gestione di una caffetteria a tema porcellino d’India, che aveva aperto con la sua migliore amica, ora defunta, e alla sua instabile, quanto frenetica vita sessuale e sentimentale.
Da Wikipedia
Qualche giorno fa, sul blog Il Libraio è uscito un pezzo di Jolanda Di Virgilio, che ho trovato molto interessante: Phoebe Waller-Bridge, “Fleabag” e l’importanza dei personaggi femminili imperfetti
In questo periodo le produzioni ci hanno messo davanti a una cascata di figure di donne forti: sono gli show “with strong female characters” di cui si parla tanto. A volte, però, forse più come un genere che come un reale cambiamento culturale.
Jolanda Di Virgilio, Phoebe Waller-Bridge, “Fleabag” e l’importanza dei personaggi femminili imperfetti
Ma cosa significa essere un personaggio femminile forte? Dipingere a tutti i costi una figura di donna sicura di sé rischia di costruire un nuovo stereotipo, diverso da quello precedente, ma che ha in comune con il vecchio l’aspetto più pericoloso: la perfezione…
Non ho visto la serie in oggetto, che sembra molto simpatica, ma condivido le conclusioni questo post dagli spunti interessanti.
Quello della superdonna è in effetti un tòpos che rischia di ritorcersi contro le donne, se non è accompagnato da una critica dell’esistente.
Perché, infatti, bisogna essere superdonne?
Perché ci sono superostacoli e superingiustizie, e, se ci pensiamo un attimo, vincerle singolarmente prosciugando le proprie risorse non è davvero quello che ci si dovrebbe augurare.
Pensiamo alle due “woman in charge” in questo momento: Christine Lagarde e Ursula von der Leyen.
Sono VERE superdonne: hanno tonnellate di lauree, battaglioni di figli, sono dei prodigi in tanti, TROPPI sensi.
Bisogna davvero arrivare a tanto, da donne, per entrare nella stanza dei bottoni? Quanti colleghi uomini possono vantare il loro curriculum?
Questo si verifica anche nell’arte.
Parlando di scrittura, non è solo mia opinione ma è ormai un dato di fatto assodato che le donne che vengono pubblicate e magari spinte dalle case editrici sono quelle molto molto brave, perché le altre, le “medie”, a parità di merito con i colleghi uomini “medi” non ce la fanno: vengono sfavorite in quanto donne.
Questo non è un vago pregiudizio ma una realtà provata. La descrive molto bene, dati e ricerche alla mano, la scrittrice Anna Feruglio Dal Dan in un pezzo pubblicato sul numero 82 della rivista di fantascienza Robot, pezzo che si intitola “In difesa delle quote rosa”.
C’è una ragione per cui le corporazioni, le banche d’affari, le assicurazioni, cercano disperatamente di aumentare la proporzione di “minoranze” che assumono, e non è quella di fare bella figura. E’ una ragione puramente statistica. Se il talento è distribuito uniformemente nella popolazione, come dati alla mano sembra che sia, ma tu assumi prevalentemente maschi bianchi di classe altoborghese, perché i maschi si laureano a voti più alti, perché sono più aggressivi nel mandarti il curriculum, perché nei colloqui anche se mandi la femminista più radicale del reparto risorse umane o l’unico membro delle Pantere Nere che hai sul libro paga i maschi bianchi comunque fanno miglior impressione… allora vuol dire che non solo ti scappano le persone di talento che sono donne o di una minoranza etnica, vuol dire che HAI ASSUNTO DEI MEDIOCRI. E li paghi profumatamente, mentre là fuori a fare le segretarie o gli spazzini ci sono altri che non hai assunto e che ti farebbero fare più soldi.
Anna Feruglio Dal Dan, “In difesa delle quote rosa” su Robot 82
Lo stesso principio si applica a ogni altra categoria in cui le donne latitano.
La proposta femminile è svantaggiata. Come quella Karen, vittima di discriminazione, anche se non esiste.
Prendiamo persone di carta. Seguiamo il successo o meno di identità fittizie il cui curriculum viene inviato ad un campione di selezionatori.
Anna Feruglio Dal Dan, “In difesa delle quote rosa” su Robot 82
Per un posto accademico, il dottor Brian Miller verrebbe volentieri assunto da circa tre quarti dei selezionatori, mentre la dottoressa Karen Miller verrebbe assunta da meno della metà dei giudici.
Sempre che le donne arrivino a proporsi: il disequilibrio tra donne e uomini si verifica nella vita prima che nelle lettere, e una donna ha ancora bisogno di “soldi e di una stanza tutta per sé” per riuscire a combinare qualcosa, in un tempo libero ripartito molto diversamente tra i generi.
Diversamente dagli artisti uomini, per i quali un tempo protetto da dedicare a sé stessi è un diritto di nascita, i giorni e le vite della manciata di artiste che appaiono sui libri è stato spesso limitato dalle aspettative sociali e dai doveri della casa e della cura.
Citazioni da: Il nemico peggiore delle donne: la privazione del tempo per sé stesse – Articolo di Brigid Schulte su The Guardian – Mia traduzione
[…]
Il tempo delle donne è stato interrotto e frammentato per tutto il corso della storia, il ritmo dei loro giorni è stato assediato dalle fatiche di Sisifo della cura della casa, dell’allevamento dei figli, del kin work – ovvero il lavoro di cura che tiene unite le famiglie e le comunità. Se per creare c’è bisogno di lunghi periodi di tempo non interrotto e adatto alla concentrazione, tempo che puoi decidere tu a cosa dedicare, tempo che puoi controllare… proprio questo è qualcosa che le donne non hanno mai avuto il lusso di aspettarsi, non senza essere accusate per lo meno di un egoismo sconveniente.
Nelle attuali narrazioni superdonnesche, forse, la dimensione che ancora manca è proprio quella storica, quella globale, quella collettiva e comunitaria.
La superdonna è unica, è speciale, è inimitabile… è sola, sola con sé stessa e il proprio sacrificio, spesso incompresa, e ancora alla mercé del sistema dominante: quello dell’individualismo.
Pensiamo proprio a loro, alle nuove presidentesse, le superdonne reali.
In un post su Dynamo.press, Le donne ai vertici dell’Unione Europea cambieranno qualcosa? Vanessa Bilancetti scrive:
Tusk, fautore di queste nomine, ha commentato «l’Europa è donna», una donna di destra, conservatrice, neoliberale, individualista e competitiva. Una donna forte e sola, che dietro la sua ascesa lascia milioni di donne in una situazione di precarietà, povertà e dipendenza economica e sentimentale degli uomini. Queste due nomine inoltre arrivano in un parlamento dove le forze di destra illiberale, neoautoriataria e nemica delle donne, non è mai stata così forte.
Se una cosa invece ci raccontano le mobilitazioni globali di questi ultimi anni è che il femminismo non può essere individualista e competitivo, ma si basa sulla sorellanza tra donne. L’uguaglianza in un mondo pensato e organizzato dagli uomini non è sufficiente per le donne, nonostante qualcuna possa arrivare in posizioni di potere, per la maggior parte rimane un mondo di violenza e privazione. Un mondo uguale solo per chi è più uguale delle altre.
Torniamo a Fleabag: è una narrazione comunque positiva che sta ottenendo degli effetti importanti – perché, ebbene sì: esistono ancora uomini che si stupiscono che le donne abbiano un pensiero, che facciano delle scelte loro, che possano essere forti, o anticonformiste, o assurde, autonome insomma, e possano respingere le aspettative sociali! Finché questi cuorcontenti esisteranno, il mondo avrà bisogno di narrazioni come Fleabag!
Allo stesso tempo, la superdonna bianca neoliberista è comunque il soggetto dominante di questa narrazione, che ha spesso la tentazione di dirsi “Le Donne”, di voler rappresentare soggetti che in realtà hanno mondi e culture molto diverse, delle quali la bianca-neoliberista è ancora una minoranza in una posizione favorita, che opprime le altre narrazioni (e spesso, ahimé, le altre donne!).
Lo mette bene in rilievo la giornalista Rebecca Liu in un pezzo molto bello e densissimo: “La costuzione della donna millennial”, pubblicato su L’Internazionale 1315 (12-18 luglio 2019):
Il marketing che si nutre di iperboli esalta spettacoli come questi attraverso il linguaggio dell’identificazione e della riconoscibilità, e così facendo li espone all’inevitabile contraccolpo negativo.
[…] é un metodo promozionale che non possiamo considerare misogino di per sé, ma che alimenta una forma di discorso pubblico che presta il fianco alla misoginia, perché vorrebbe prevenire lo scetticismo sul valore di una giovane voce femminile presentandola come il frutto incredibile e rivoluzionario di un genio generazionale. Quasi nessuno è un genio. Non serve essere un genio per produrre un’opera di valore: basta una rapida scorsa alla lunga lista dei più celebrati autori maschi per accorgersene.
[…] La politica viene trattata solo superficialmente […] una politica dove l’autoaffermazione è una prassi ardita, un atto rivoluzionario di per sé[…] Le donne – tanto per essere chiari – non godono ancora del pieno controllo dell’io neutro, sono ancora viste alla luce della loro appartenenza di genere. E solo alcune sembrano in grado di vestire i panni di una femminilità universalmente riconoscibile.
[…] Non è un po’ sospetto che ci riconosciamo in donne che vivono realtà sociali elitarie, che hanno uno stile di vita che non possiamo permetterci e le cui rivolte contro il mondo sono sempre destinate al fallimento e non sono poi così anticonvenzionali (anche se vorrebbero farci credere il contrario)?
Rebecca Liu, “La costuzione della donna millennial” su L’Internazionale
Potrei riscrivere tutto il pezzo, tanto è pregno di implicazioni, di temi e di domande che dobbiamo farci.
In quanto donne, ma anche in quanto persone.
Lo status del soggetto è secondo me il nodo principale da cui potremmo ripartire.
Un tema sul quale lavoro da mesi, nell’ambito della fantascienza, in conseguenza di VITRIOL, una densa lezione accademica per alunn* del NABA, che ho tenuto ad aprile, grazie all’invito del collettivo hacker IPPOLITA.
Un tema che abbiamo incluso nel nostro “Manuale di scrittura di fantascienza” dedicando un capitolo alla costruzione dei personaggi e il capitolo successivo al queer e alle questioni di genere.
Un tema che evidentemente trascende i recinti di uno specifico genere letterario e riguarda la narrazione tout court.
Il soggetto ora è sempre formulato al maschile, ad esempio.
L’uomo nella nostra società e il default, la normalità. Se immaginate il terrestre medio, e non solo per via della grammatica italiana che non aiuta, pensate a un uomo.
Anna Feruglio Dal Dan, “In difesa delle quote rosa” su Robot 82
L’italiano medio? Un uomo.
Lo scrittore tipico? Il lettore tipico?
E quando questo soggetto è (finalmente, fortunatamente) declinato al femminile… rimane poi connotato in modo preciso ma anche invisibile: “la donna di oggi” è la donna bianca, la donna millennial (quindi di una fascia di età precisa), la donna middle-class, la donna occidentale e di una specifica cultura.
Se così non è, è una donna “diversa”: ma diversa da cosa? Da chi?
Non siamo forse tutt* portatori e portatrici di precise caratteristiche?
Chi dice che alcune debbano essere più scontate di altre?
Questa ultima domanda, che non è affatto una domanda retorica, ha una risposta dolorosa perché legata a ingiustizie storiche odiose.
Secondo me, come artiste e come artisti, come persone che scrivono e intendono costruire mondi e comunicare al mondo, sono però domande che dobbiamo farci.
Per superare l’ennesima sopraffazione della “meravigliosa superdonna”, e combattere la banalità solo apparente di un soggetto imposto, che dobbiamo rimettere in discussione e questionare fin dalle radici. Spesso siamo condizionat* ad accettare queste radici così, come ci vengono propinate, senza più accorgerci che sono frutto di condizionamenti e ingiustizie che agiscono ancora nel mondo.
Agiscono perché le parole sono cose, “sono finestre oppure muri”: le parole presuppongono e costruiscono la realtà. La disparità nelle narrazioni non è solo effetto, ma anche causa di quella nelle vite delle persone.
Vogliamo davvero esserne complici?