Sono una convinta lettrice di newsletter, comprese quelle promozionali con le uscite editoriali. Ultimamente ho un nuovo gioco: trovare storie fantastiche in cataloghi “normali”. Spesso, queste uscite “contaminate” di fantastico e di fantascienza (sì, quando leggi “distopia” siamo in quei territori), oltre a trovarsi in cataloghi di editori “mainstream”, risultano esse stesse in modo vago, perché non viene dichiarata la loro appartenenza a un particolare genere letterario.
La trovo una questione interessante e da tenere d’occhio.
Oggi più degli anni passati, si verifica uno sconfinamento del fantastico (inteso come fantascienza, e anche come qualsiasi cosa esca dal “possibile”) nella narrativa realista, o forse è il contrario: le storie “realiste” sconfinano in un altrove simbolico e devono usare gli strumenti della letteratura fantastica per esprimere il senso profondo di ciò che stanno raccontando.
(Non è un fenomeno nuovo: anche nel Novecento, in periodi particolarmente critici della storia occidentale, si è verificata questa mescolanza tra scrittura realista e necessità espressiva fantastica.)
Questa contaminazione non è sempre dichiarata, e quindi capita che lettori e lettrici si trovino tra le mani delle storie che credono “normali” e che contengono poi elementi “straordinari”: presenti o futuri alternativi, creature soprannaturali, elementi simbolici di vario tipo…
Non so se per chi ama il fantastico questa sia una buona notizia: lo sarebbe certamente, se si accompagnasse a una operazione anche culturale degli editori. I quali potrebbero e dovrebbero lavorare anche sulla comunicazione di questi titoli, raccontando il fatto che essi contengono un fantastico molto legato al reale, un fantastico che arriva dove il realismo non può lavorare.
Insomma, con un po’ di sincerità in più lettori e lettrici potrebbero così imparare una cosa importante: la scrittura fantastica parla di cose vere! Il fantastico non è una puerilità di fate o alieni, ma una articolazione vitale del pensiero!
Sarebbe il primo e non il solo vantaggio possibile, se la presenza del fantastico venisse dichiarata come la cosa bella che è; e se venisse amnesso non dico un debito verso la narrativa di genere (per me è così, ma i pareri e i percorsi possono essere diversi), ma almeno una compresenza di elementi ugualmente “veri” e validi.
E invece. L’impressione, al momento, è che ci sia ancora un certo fare finta di niente, un “fare i vaghi”. Le sinossi si limitano a esporre le trame, senza impelagarsi in questioni o nominazioni di genere, ed evitano assolutamente le definizioni che pure sarebbero corrette.
Lo fanno, magari, proprio per evitare che il proprio pubblico si spaventi e sia diffidente, e la cosa, a un’analisi superficiale, rimane comprensibile: la letteratura fantastica si porta addosso molti e pesanti stigmi, in fondo.
…Ma se chi ne pubblica di bella non la dichiara, ditemi voi come si potranno mai superare, questi stigmi.
Insomma, e mi è già capitato di dirlo in qualche panel: a me questa pare una forma di appropriazione, sia da parte degli editori che da parte di scrittori e scrittrici.
Uso il fantastico, ci faccio belle storie, ravvivo il catalogo e le presentazioni con temi à la page (mari che salgono, pestilenze che soffiano, governi kattivi che imperano)… E contemporaneamente non riconosco NULLA alle forme che mi permettono di fare tutto questo. Perché mi puzzano un po’ di controcultura, di bizzarria, di alternativa, di qualcosa insomma che può spaventare il mio “lettore tipo”, spesso generalizzato nella sua versione più ottusa e superficiale possibile, e danneggiare le mie vendite.
Parlo qui di editori, beninteso.
Per chi scrive, i discorsi sono più ampi, legati a percorsi più personali e meno generalizzabili. (Con ciò non dico che non ci si può ragionare: magari scriverò un altro articolo, magari leggerò io i vostri).
Altri discorsi ancora si possono fare per il cinema e la grande industria dell’intrattenimento, dove la questione è ancora più inquietante e preoccupante: perché, a quei livelli, una narrazione egemone esiste eccome, e tende chiaramente a fagocitare le novità, per mungerle a sangue e intanto per annacquarle nella loro mera estetica, disattivandone in questo modo il potenziale trasformativo ed eversivo.
L’esempio della distopia sociale novecentesca trasformata in “distopico” mi pare illluminante.
Ma torniamo a bomba: le uscite editoriali.
Ho qualche consiglio di lettura possibile, che ho individuato spigolando le newsletter.
Avvertenza, a questo punto doverosa. Anche se il nostro amato fantastico non è trattato con nobiltà d’animo, penso che chiudersi per principio e/o per reazione non sia una strategia sensata.
Come chi scrive realismo può servirsi del fantastico anche non “frequentandolo” assiduamente, chi scrive fantastico può prendere molto dal realismo, e dalla letteratura che un tempo era definita “alta”: gli stili, gli approcci, le forme, la ricerca espressiva, e così via.
La questione stilistica è un po’ un punto debole di chi scrive fantastico, perché la divisione novecentesca tra letteratura “alta” e letteratura “bassa” ha permesso e anzi favorito il proliferare di parecchia monnezza, concentrata proprio nei generi. Questo ha fatto sì che si abbia una base non molto solida, nella tradizione SF e fantasy; in particolare, appunto, dal punto di vista della qualità stilistica.
Aggiungiamoci anche una considerazione più intuitiva: chi non ha una formazione da lettore o lettrice di fantastico a volte può risparmiarsi certi automatismi, nei quali ricade chi ha molta familiarità con certi temi. Sguardi più freschi e vivi, approcci diversi, modi intelligenti di combinare realtà e simbolo non sono appannaggio di un genere, e possiamo spesso trovarli in autrici e autori che, nell’entrare in una terra per loro nuova, possono avventurarsi in sentieri poco battuti, persino senza saperlo.
Ecco quindi che un dissidente può usare la distopia per esprimere l’orribile sensazione di assurdità e di controllo in cui vive. Che il contesto tradizionale di un villaggio sia giustapposto a metafore. Che un’indagine ci porti non solo alla ricerca di un colpevole ma alla scoperta di un mondo. Che un pericolo “fantascientifico” ci porti a confrontarci con i nostri legami affettivi. Che un’allucinazione sia anche vera, perché significa qualcosa. Che l’invenzione di un nuovo videogioco cambi le vite di molti personaggi.
Queste sono frasi che ho pensato leggendo le sinossi editoriali, quindi prendetele con le molle. Ma in fondo, perché non cercare ispirazione fantastica anche qui? Solo l’ultimo titolo non è un romanzo, ma una memoria di Lydia Yuknavich, scrittrice dell’interessantissimo e (per me) molto problematico “Il libro di Joan”, una distopia postapocalittica dichiarata e pubblicata da Einaudi, in quei pazzi mesi weird nei quali uscì anche “Annientamento” di VanderMeer e poi i suoi seguiti. L’autrice mi pare quindi meritevole di approfondimento.
Buone letture, buoni percorsi e buone storie!
E impariamo tanto, in modo che, anche se continueremo a non ottenere riconoscimento dagli ambienti “alti”, potremo costruirci da solə un nuovo paradigma, solido e ricco, con il quale esistere in autonomia, e magari… volare ancora più in alto!
Tibor Déry, “Il signor A.G. nella città di X, Il Saggiatore
(uscito ad aprile)

Con A.G. Tibor Déry ha creato un novello K., un antieroe intrappolato nelle maglie plumbee di una città-mondo dai contorni metafisici. Scritto durante una prigionia politica sotto il regime stalinista di Rákosi e in seguito censurato, Il signor A.G. nella città di X è un gioiello nascosto della letteratura del Novecento. Un’opera senza tempo, che riesce a dare un corpo all’angoscia di essere circondati da una realtà che non si comprende più; ma nella quale, in ogni momento, alberga sempre una speranza di libertà.
(Traduzione di Eva Rossi.)
Peter Handke, “La mia giornata nell’altra terra. Una storia di demoni”, Guanda
(dal 5 maggio)

In questo romanzo, il premio Nobel Handke dà voce a un uomo considerato dagli abitanti del villaggio un matto posseduto da «innumerevoli demoni»; dorme nel vecchio cimitero e parla una lingua sconosciuta, ma il suo canto è angelico. Un giorno, dalla riva del lago che divide la sua terra dall’altra, l’uomo nota uno sconosciuto che lo fissa come nessuno aveva fatto prima. Lungo la traversata per arrivare nell’altra terra l’uomo incrocia personaggi carichi di simbolismo: un gruppo di pescatori, una poliziotta in preghiera, un predicatore. In una giornata soltanto, l’uomo si libera dalle proprie ossessioni e impara un modo nuovo di percepire il mondo.
(Traduzione di Alessandra Iadicicco.)
Samuel Fisher, “La neve non ha odore”, 8TTO edizioni
(dal 5 maggio)

In una Gran Bretagna coperta dalla neve perenne, molti sono fuggiti alla ricerca di luoghi più miti, altri invece sono rimasti nella speranza che tutto tornasse alla vita di prima. E invece la neve copre ogni cosa e attutisce persino la vita, resta bianca e immacolata, finché non si sporca di sangue. A terra giace il corpo di un giovane e sopra di lui incombe quella di un altro uomo che lo colpisce con un’ascia. Cosa succederà ora che a Wivenhouse non c’è più la polizia a garantire la sicurezza?
In questo presente alternativo, in cui il disastro ambientale si è già consumato, a raccontare le vicende ci sono le voci di Helen e Joe, madre e figlio.
(Traduzione di Cristina Cigognini.)
Fernanda Trías, “Melma rosa”, SUR
(dall’11 maggio)

Scritto prima della pandemia, questo romanzo distopico è ambientato in una città portuale colpita da una malattia misteriosa. Qui una donna tenta di comprendere perché tutto intorno a lei sta crollando. Un vento tossico avvelena le strade e obbliga le persone a stare in casa o a scappare; nei supermercati non c’è da mangiare e la melma rosa prodotta con scarti animali è oramai l’unico cibo reperibile. Mentre la donna organizza la sua fuga verso il Brasile, a trattenerla ci sono i legami, come quello con la madre; o il fidanzato ricoverato dopo il contagio; o il ragazzino di cui si prende cura e che ha una fame insaziabile. Partire significa salvarsi, ma farlo senza di loro è impossibile.
(Traduzione di Massimiliano Bonatto.)
Jason Mott, “Che razza di libro!”, NN editore
(dal 12 maggio)

Uno scrittore impegnato nel tour promozionale del suo libro appena pubblicato incontra un bambino di colore che da quel momento in poi lo segue ovunque. A ogni tappa del tour, il bambino racconta qualcosa di sé all’uomo e di come i genitori gli abbiano insegnato a essere invisibile in modo da proteggersi dalla brutalità del mondo. E in effetti l’unico che può vedere il bambino è lo scrittore che crede si tratti di un’allucinazione.
Vincitore del National Book Award 2021, Che razza di libro! narra la storia di un’amicizia tra un bambino invisibile e un uomo in fuga dal proprio passato.
(Traduzione di Valentina Daniele.)
Jennifer Egan, “La casa di marzapane”, Mondadori
(dal 17 maggio)

Bix Bouton è assurto a “semidio della tecnologia” grazie allo straordinario successo della sua società, Mandala. Bix ha quarant’anni ed è alla disperata ricerca di una nuova idea, quando s’imbatte in una discussione in cui si parla di download o dell’”esternalizzazione” della memoria. È il 2010. Nel giro di un decennio la nuova tecnologia di Bix, “Riprenditi l’Inconscio” ha sedotto moltitudini. Ma non tutti. Attraverso una serie di affascinanti narrazioni a incastro, Egan mette in luce le conseguenze di “Riprenditi l’Inconscio” illustrando le vite di diversi personaggi i cui percorsi si intersecano nel corso dei decenni.
(Traduzione di Gianni Pannofino.)
Lidia Yuknavitch, “La cronologia dell’acqua”, Nottetempo
(dal 19 maggio)

Avvalendosi del memoir, Lidia Yuknavitch affronta i temi del genere, della sessualità e della famiglia, raccontando gli effetti che provocano nella crescita di una giovane donna l’essere considerata «non tradizionale» per via dell’attrazione tanto verso uomini che verso donne.
Accanto a tutto questo, Yuknavitch narra il suo percorso di scrittrice e gli incontri che le hanno segnato la vita, da Ken Kesey a Kathy Acker.
(Traduzione di A. Castellazzi)
POST SCRIPTUM
Ci vediamo venerdì 13 alle 17:30, alla Libreria Libraccio di Romolo, viale Romolo 9, Milano, insieme a Romina Braggion e all’Enciclopedia delle donne, per parlare insieme proprio di scrittura, di generi, di canoni… Vi aspetto!

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