Lo shwa o scevà: un anno dopo, facciamo il punto

Due anni sono passati dal mio post “La scevà e il linguaggio inclusivo”, post che è stato molto letto, nel quale esprimevo alcune considerazioni su questa controversa lettera.

Ecco come presentavo il pezzo sul mio profilo facebook

Oggi, il dibattito continua e infuria: molto interessante il panel che ho seguito a Stranimondi, dove, accanto a un intervento da remoto di Vera Gheno che mi è parso abbastanza debole, la traduttrice Martina Del Romano ha detto cose bellissime.

Sta di fatto che le questioni aperte sono molte e oggi chi attacca l’uso dello scevà (specialmente dalla parte femminista) mi pare abbia ragioni comprensibili e serie da considerare.

C’è di buono che questa letterina non è indicata come una soluzione definitiva, ma come l’apertura di una domanda, la manifestazione di un’assenza, che resti per ora visibile, ma senza decretare nulla di chiuso.

C’è di meno buono che usare un linguaggio inclusivo senza poi riconoscere altri tipi di discriminazione (o peggio, sentendosi moralmente superiori) è un comportamento che rischia di risultare ipocrita e superficiale anche quando non lo è.

Mi sono divertita a prendere in giro questo esercizio parziale di inclusività nel mio racconto “Il sogno di Čapek”, nel quale si parla correttamente, la polizia è denominata Forza Gentile e i mercenari garantiscono parità di genere nelle loro squadracce d’assalto.

Mi pare uno scenario possibile, quando non già esistente, se non stiamo in guardia verso la strumentalizzazione delle istanze inclusive da parte del potere: un potere oggi più preparato, consapevole e intelligente (seppure per opprimerci!) rispetto a molti e molte attiviste anche in buonissima fede.

Continuiamo a ragionarci, continuiamo a parlarne.
Continuiamo a camminare…


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