La natura rovesciata nel XIII Canto dell’Inferno – Qualche nota per il #dantedì

In questi giorni sono alle prese con un lavoro in fieri, che tocca anche l’Inferno di Dante. Questo mi dà una buona occasione per unirmi alle celebrazioni del #dantedì, con qualche nota di merito che non ha pretese di critica, ma vuole essere piuttosto una riflessione allegorica.

(E sì che, all’uscita dal classico, ho mollato a via Sannio libri e dizionari, giurando che MAI avrei ancora frequentato quella roba!
Ma ora che ho passato “il mezzo del cammin di nostra vita”, eccomi per contrappasso a cercare paper accademici nel cuore della notte, ripensando con rimorso al povero Liddell-Scott abbandonato a un bancarellaro!)

Per il mio lavoro, mi sto concentrando sul Canto XIII, quello in cui Dante e Virgilio entrano nella selva dei suicidi e “incontrano” Pier della Vigna.
È un momento molto cupo – e grazie!, direte voi, siamo all’Inferno!
Ma secondo molta della critica questo canto contiene una quantità di espressioni di dolore e infelicità ineguagliata nel resto dell’Inferno.

E di cosa parla? Che dice? Dice tante cose, lungi da me voler parafrasare nulla. Voglio invece citare qualche immagine che mi colpisce, che posso riportare, per tentare una riflessione allegorica finale.

Illustrazione del Canto XIII di Giovanni Stradano, da Wikimedia

Questo è il luogo del tormento per suicidi e dissipatori. Chi si suicida è il dissipatore per eccellenza, dìssipa il dono della sua vita, e per contrappasso è mutato in pianta.
Vive la pena in un ambiente orrendo, nero e orrorifico: questa non è la “selva oscura” dell’inizio del viaggio di Dante; non è il bosco medievale, selvatico, ma fonte anche di nutrimento, legname, rifugio libertario; non è quell’estensione del deserto nella quale, come rileva Le Goff, il monaco può fare attività contemplativa… La selva dei suicidi è il solo lato oscuro di tutto questo: nera, senza sentieri e quasi impenetrabile, casa delle Arpie e percorsa da lamenti di ignota origine.

I lamenti arrivano dagli alberi, che contengono-imprigionano le anime dei suicidi: una volta arrivate all’Inferno, Minosse le scaglia nella selva a caso, ed esse crescono come piante, stentando, continuamente ferite dalle Arpie.

Questi suicidi fatti alberi sono un altro rovesciamento totale: sono solo storti, e hanno solo spine velenose. Pensiamo invece all’Albero della Vita, e che la Grazia stessa è accostata dalla teologia alla figura dell’albero che dà dolci frutti. L’albero-Pier della Vigna è uno “sterpo”, e non può parlare se non quando ferito: Virgilio esorta Dante a staccare un suo ramo, e quando Dante obbedisce constata che dalla ferita sgorgano insieme sangue e parole.

Gustave Doré

Pier della Vigna racconta poi la sua storia, dove troviamo il nucleo della fede, centrale nella Commedia, accostato per antitesi agli effetti nefasti di questa fede, che Pietro raggiunge a suo discapito (parla di “fede al mio segnor”, ahi, ahi).

(Mi viene in mente il saggio biografico “L’eminenza grigia”, in cui Aldous Huxley indaga il conflitto tra la fede mistica di Frate Giovanni e la sua politica tutta a favore della carneficina della Guerra dei Trent’Anni. Essendo stato Huxley un italianista, oltre che un tuttologo, deve aver avuto in mente anche le parole di Dante, in questa sua ricerca dotta, ma piena altresì di domande.)

Abbiamo poi un’altra scena da brivido, dove la visione è preceduta dall’udito: a Dante e Virgilio arrivano rumori come di un cinghiale inseguito, e poi un trambusto di sterpi, e solo dopo appaiono due anime ferite, che gridano terrorizzate fino a restare senza fiato; dietro di loro una muta di cagne infernali le insegue per sbranarle.

Gustave Doré

Questo è l’archetipo della Caccia Selvaggia, un’immagine molto antica, che popola l’immaginario dell’umanità: noi esseri umani, solitamente cacciatori e inseguitori, diventiamo prede, in fuga nel bosco, braccati da esseri infernali sotto forma di animali. Nel Medioevo, specialmente in Italia, alla Caccia Selvaggia si associavano proprio i suoni: era segno di cattiva fortuna trovarsi a udire zoccoli, urla, richiami di cani, scalpitii vari, provenienti dal buio della notte e dal bosco; che di notte diventava territorio oscuro, pericoloso, oltreumano.

Quello che in generale mi colpisce di questo Canto è l’aspetto della metamorfosi (che si richiama a quelle di Ovidio) estremizzata però in una natura volta all’orrendo. L’uomo suicida è una pianta che sanguina, l’anima che dìssipa è sbranata in una caccia crudele quanto quelle umane, con i ruoli al rovescio.

La Selva dei Suicidi, di Michael Mazur

Capiamoci: non penso che Dante volesse lanciare un messaggio ecologista ante litteram, e non penso nemmeno che serva a nulla attribuirglielo. La Divina Commedia ha i suoi significati, non possiamo fare sovrapposizioni coeve.
Allo stesso tempo, la poesia è di tuttə, e possiamo prenderla e farci cose nuove, al di là delle intenzioni di chi la scrive, per dare immagini a sentimenti e idee anche nuove, diverse da quelle di origine.

(Farlo è rischioso, certo, e può essere una forzatura se rovesciamo o contrastiamo le intenzioni iniziali: ma la sensibilità ecologica di Dante è stata più volte messa in luce. La sua attenzione al dettaglio più sottile, la sua conoscenza tanto pratica che letteraria, il suo chiamare in causa in senso postivo piante considerate negative… sono indici di cura, di amore per il Creato. Quindi, perché no?)

Lungi da me, dunque, attribuire a Dante tali intenzioni, sono io a farmi carico di questa spericolatezza, con una domanda: non può essere quella del XIII Canto, qui e ora, l’allegoria di un rapporto pervertito, da rovesciare di nuovo per salvarci?

Il dìssipare è in generale una violenza, una violenza verso sé stessi e verso ciò che si butta via. E non siamo tutti violenti verso noi stessi, non siamo noi suicidi, quando devastiamo e anneriamo il mondo verde? Non ci rendiamo neri allo stesso modo, meri corpi morti appesi a rami sanguinanti, quando usiamo le nostre fedi e dissipiamo i nostri talenti per inseguire idoli, o peggio, per avere, per distruggere? Non meritiamo di finire al posto di coloro che sbraniamo, per contrappasso, quando scialacquiamo il nostro supposto potere per fare del male?

Lorenzo Mattotti

Dante, in questo canto, non riesce a domandare direttamente: Virgilio lo esorta a farlo, ma Dante risponde che non ce la fa, che è troppo turbato, e lascia a lui la parola.
Siamo noi in grado, oggi, di fare domande a un albero storto e sofferente, che eleva lamenti, che sgorga sangue dalle ferite? E soprattutto, ascolteremo le parole che sgorgano da quel sangue?

Secondo Dante, tutto ha un ordine superiore, uno scopo. E tutto è mosso da un amore dal quale non dobbiamo allontanarci, pena la caduta nel peccato.

Anche su questo, possiamo certamente fare una riflessione, che oggi assume una particolare urgenza e pregnanza.

“Dante e Beatrice” di Salvatore Postiglione
Beatrice in realtà era una donna sposata, dunque a capo coperto, e Dante la incontra per le strade di Firenze, accompagnata.
Qui c’è piuttosto, e chiaramente, un’altra allegoria. A voi la risposta 🙂

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